CAMMINI ED EMOZIONI INTORNO A CAMPOROSSO IN VALCANALE - RICORDI NELLE FOTO DI 20 ANNI FA, Tarvisio (UD), Friuli Venezia Giulia
Vecchie foto cartacee scattate negli anni 2002-2004 mi ricordano luoghi e cammini tra natura ed architetture intorno a Camporosso in Valcanale, frazione di Tarvisio (UD).
A Camporosso ho vissuto numerose trasferte varie volte all'anno, viaggiando da Napoli in aereo o
in treno notte con i miei due figli piccoli, per raggiungere il marito che lavorava in zona, e per trascorrere lunghi
periodi, durante i quali portavo con me anche il computer ed il mio lavoro tecnico da scrivere.
Nella
bellezza di questa terra alpina, di cui mi innamorai perdutamente, ricordo tanti
cammini semplici ma gustati in varie stagioni, con la piena immersione nella natura, in una
realtà per me nuova e stimolante, ecologica, sportiva e paesana, dalla quale la vita
metropolitana da cui provenivo appariva lontanissima e più squallida che mai.
La
casa era molto particolare, un piccolo appartamento nella palazzina della ex-stazione
ferroviaria di Camporosso Valcanale, a ridosso dei binari dismessi per la
realizzazione della pista ciclabile Alpe-Adria (all'epoca in preparazione); lo spazio interno era essenziale,
razionale ed aveva un sapore di vecchio; le camere erano arredate poco e spartanamente, e le finestre offrivano affacci panoramici sul monte Lussari, su boschi di
abeti e su prati interposti tra basse casette nel fondo della valle stretta e
fredda, proprio un Canale di nome e di fatto, incuneato tra le montagne.Il
sito era attestato sulla Sella di Camporosso, che fa da spartiacque tra il l’alto
Adriatico Mediterraneo ed il Mar Nero, in bilico tra due mondi, quello alpino
friulano-austro-italiano e quello mitteleuropeo, che si estende sconfinato a
nord-est.
Il
contesto invitava al cammino per la scoperta della natura dei luoghi, ed anche alla
socializzazione nel vicinato, secondo quella dimensione umana tipica dei paesi,
in cui ci si relaziona con semplicità ad ogni età.
La natura penetrava nella
casa attraverso tutte le finestre e nello spazio interno echeggiava un richiamo
irresistibile al cammino. Una forza centrifuga, impalpabile ma potente, conduceva
verso le valli circostanti, austere, incuneate tra montagne coperte da foreste di abeti e sovrastate
da cime di bianca roccia calcarea, strapiombanti e selvagge, stagliate nel
cielo come giganti pietrificati.
Nelle
mattine d’estate, mentre i bambini dormivano, dalla finestra della cucina ammiravo
le cime rocciose, altissime, illuminate dai primi raggi di sole, ed affrettavo
la preparazione di pasti sani e frugali da lasciare pronti da scaldare al
rientro dalle camminate, oppure riempivo thermos portavivande e zaini con il
pranzo da consumare all’aria aperta.
In
gioventù avevo girovagato molto in ambiente mediterraneo, e verso i 40 anni avevo
finalmente occasione di camminare in un ambiente alpino diverso da
quello dei “paesi delle favole” di alcune famose località turistiche che conoscevo, dove la
cura minuziosa della bellezza “da cartolina” mi era apparsa artefatta con abilità, apposta per
ammaliare i visitatori in un tripudio di colori, tra gerani alle finestre, tendine
ricamate e decorazioni vivaci di case, negozi, tavolini, piazzette e fontane. In Valcanale, nonostante il turismo estivo ed invernale in via di sviluppo, in quegli anni si gustava ancora un pò del sapore di montagna alpina degli abitanti, oltre che degli utenti, tra quelle terre alte, riservate e selvagge all’estremo nord-est d’Italia.
Avevo
letto libri che raccontavano lo spopolamento della montagna, il declino della
cultura e del saper fare di genti tenaci, che fino a pochi decenni prima erano
state capaci di vivere con fatica e parsimonia in autosufficienza, abitando
case povere costruite in pietra e legno, nutrendo mucche con fieno sfalciato o
con fiori ed erbe degli alpeggi in quota, producendo latte e formaggio in
malghe e casere isolate, confezionando maglioni con la lana delle pecore, tagliando
e trasportando legname dei boschi per costruire e per scaldarsi, cacciando
animali per sfamarsi, percorrendo sentieri nella neve alta per cercare risorse
per la sussistenza. Sapevo che parte di questo mondo forte stava svanendo, e che
la vita della generazione passata si era spenta in alcuni borghi dimenticati o
abbandonati.
A Camporosso, borgo attivo e grazioso, spesso camminavamo per antiche strade e sostavamo innanzi alla grande chiesa che, con il suo alto campanile a cipolla emergente nel paesaggio della valle, evocava le architetture d'oltralpe, importate da genti che per secoli si erano mescolate oltre i confini, e che al loro desiderio di scambio culturale e di pacifica convivenza avevano dedicato il santuario del Monte Lussari.
A Camporosso osservavo e fotografavo una costruzione alpina antichissima, esemplare raro di architettura spontanea all'epoca ben conservata, con basamento in muratura, pareti in legno, tetto in scandole di legno, e speravo che sopravvivesse nel tempo a venire, circondata dalle gru di cantieri che costruivano villette e case vacanze, attestate sui grandi prati scoscesi circostanti.
Questi ed altri pensieri mi accompagnavano nei cammini quotidiani che, con due bambini piccoli di 5 e 2 anni per mano, non erano particolarmente avventurosi, ma comunque piacevoli ed interessanti. A Tarvisio sostavamo innanzi ad imponenti campanili di chiese attestate sulle alture, emergenti tra le architetture del centro.
Camminavamo a lungo su prati stabili pieni di erbe alte e di
fiori di tanti colori, calpestando con gli scarponi un piano di campagna invisibile,
come un mondo sommerso dalla flora che esplodeva potente nella breve estate, accogliendo
insetti che ronzavano di continuo ed una moltitudine di farfalle svolazzanti.
Mio figlio attirava naturalmente e senza volerlo le farfalle, che forse ritrovavano
nella sua piccola persona qualche odore speciale e misterioso, e stazionavano a
decine sulle sue braccia e sulla sua testa, immobili. La sorellina ed io
osservavamo la scena con curiosità e con un tantino di invidia, perché non riuscivamo
a fare altrettanto.
Spesso sostavamo innanzi a splendidi capitelli votivi isolati in mezzo ai prati. Vorrei ritornare in quei luoghi per rivisitare quei capitelli e documentarli fotograficamente nel dettaglio. Spero di ritrovarli ancora in buone condizioni.
Risalivamo
il corso di torrenti camminando su “grave” tormentate, in cui le forme
irregolari ed appuntite dei sassi rivelavano il contrasto tra la dolcezza e la
limpidezza delle acque gelide e refrigeranti in estate, e la violenza delle stesse
acque che, durante le piogge primaverili ed autunnali, diventavano torbide e correvano
all’impazzata verso valle, trascinando ghiaie, sassi e persino tronchi di alberi
secolari altissimi, sradicati da sponde erose dalla furia devastatrice.
Spesso
facevamo lunghe camminate familiari sull’altopiano pascolivo tra le malghe del
Montasio ed in Val Saisera, tra i pascoli in cui le mucche rasavano i prati in
poche ore e divoravano in silenzio fiori ed erbe avanzando compatte su più fronti, tra i
boschi di abeti e le piste di fondovalle, calpestando sassi tra i quali in
estate crescevano erbe forti e spinose. Amavo molto la natura di quella valle racchiusa
tra montagne altissime, e quando mi distendevo supina a terra tra i sassi guardando
il cielo, provavo una immensa emozione, e ringraziavo la sorte che mi consentiva
di essere ancora lì viva, sana ed immersa nella natura, dopo aver incontrato la
morte da vicino appena qualche anno prima.
Camminavamo
intorno ai laghi e sostavamo sulle sponde, dove i bambini giocavano con sabbia
e ghiaietto, e realizzavano costruzioni con tronchi di legno.
Nelle acque gelide,
scure ed inquietanti del lago del Predil ho gustato anche lunghe nuotate
solitarie.
La
natura di quei luoghi offriva la sua magia anche in inverno e me la godevo
pienamente, anche se non ero abituata al clima freddissimo ed alle nevicate
molto abbondanti, che imbiancavano il fondovalle di Tarvisio e sommergevano la Val Saisera.
In casa avevo
organizzato una postazione di lavoro con computer nella camera che mi piaceva
di più, quasi vuota, con una finestra affacciata sul boschetto di abeti. Nelle
sere d’inverno, durante nevicate che si protraevano per ore ed anche per
giorni, spesso spalancavo la finestra e camminavo per la stanza respirando l’aria
purissima ed ascoltavo il silenzio, interrotto di tanto in tanto dal fruscio di
masse di neve che scivolavano dai rami degli abeti stracolmi, e si adagiavano dolcemente
sul suolo. Dopo le lunghe nevicate i cammini affondando nella neve alta e
soffice erano divertenti, ma duravano poco. La neve ghiacciava presto a quelle
temperature e, quando usciva il sole, il paesaggio risplendeva, scintillante e cristallino
tutt’intorno, ed abbagliava la vista.
Ricordo un lungo cammino nel grande prato ghiacciato della Valbruna in una mattina di gennaio, con il sole che splendeva nel cielo azzurro senza nubi. Bianco ed azzurro erano i colori dominanti, che stringevano in un potente abbraccio il cielo e la terra sommersa dal ghiaccio, ed anche gli alberi ed i capitelli votivi; questi piccoli e splendidi manufatti, coperti da falde di tetto fortemente inclinate, emergevano isolati sulla superficie perfettamente pianeggiante ed apparivano ancor più emergenti, incappucciati dalla spessa coltre bianca.
Camminavamo agevolmente con gli scarponi sulla distesa incontaminata, sulla quale non vi erano in quel momento altre impronte oltre alle nostre. I bambini correvano e si rotolavano a terra, tra il gelo ed il sole e sembravano felici, soprattutto quando giocavano sugli scivoli naturali su monticelli di fieno sommersi dal ghiaccio.
ARCHITETTURE-CAMMINO
(foto di Irene Munzù)
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Commenti
Un abbraccio!Marilu’
Ci torno sempre molto volentieri!
Ciao Lorena
Ci torno sempre molto volentieri!
Ciao Lorena