CAMMINO NEL BORGO, SOTTO IL CAMPANILE - EMOZIONI VAGANDO NEL PASSATO, Dardago, Budoia (PN), Pedemontana Pordenonese
CAMMINO NEL BORGO, SOTTO IL CAMPANILE - EMOZIONI VAGANDO NEL PASSATO, Dardago, Budoia (PN), Pedemontana Pordenonese
Era una gelida mattina di febbraio, alcuni anni fa. Ero appena sbarcata
nello slargo deserto di un piccolo centro storico della pedemontana
pordenonese in cui non ero mai stata prima. Ero lì per un sopralluogo di lavoro
e mi ero anticipata molto sull’orario dell’appuntamento, sia per individuare il
luogo esatto, sia per esplorare l’ambiente, come mi piace fare ogni volta che mi
trovo a lavorare in una località nuova.
Nell’attesa provavo a seguire il mio istinto e la mia curiosità
per il costruito storico, immergendomi nell’atmosfera per sentire lo “spiritus
loci”, l’essenza antica di quel borgo che in quel momento sembrava fuori del
tempo, immerso nel silenzio.
Il lavoro da svolgere di lì a poco sarebbe stato duro e disagiato,
in una grande casa disabitata da decenni, umida, buia e fredda, in cui sarei
dovuta entrare con altre persone per ispezioni, rilievi e documentazione
fotografica.
Osservavo dall’esterno la casa, riservata e protetta da un portone
compattissimo, sbirciando attraverso le sconnessioni dell’alta muratura di recinzione di una grande corte sulla quale prospettava una facciata semplice e scarna, fiancheggiata
da un immenso fienile con stalla e da un orto ben squadrato, piantumato con
alberi da frutto che innalzavano verso il cielo rami secchi ma vivi, che
promettevano di donare ancora gemme, fioriture e frutti nel sole dei mesi a venire.
Nel borgo il campanile della chiesa dominava il paesaggio, attestato sulle
pendici brune della montagna, ricoperte da boschi spogli, con vista sulle cime
innevate dai 700 m in su, fino ai picchi oltre i 2000 m.
Lo sguardo vagava dall’alto verso il basso, dal cielo alle cime
montane, dalle pendici dei monti allo spazio del borgo, dalla strada stretta alla
piazza. L’occhio si soffermava sulle cortine di case che sottolineano la strada
con curve dolci ed ampie, e si concentrava su tessiture murarie fatte con sassi
rotondeggianti, tratti secoli prima dalle sponde del torrente che scorre a
valle, su ampi portali a sesto ribassato in conci in pietra squadrata, talvolta
impreziositi da modanature modeste, appena abbozzate, con rari inserti di
mattoni laterizi rossi, emergenti nel grigio circostante.
Lungo le cortine di case osservavo numerose edicole votive e
capitelli, manufatti di devozione delle genti del passato; accompagnavano il
cammino, benedicenti e/o commemorative, alcune molto antiche e pregevoli, altre
storiche e datate, non dimenticate ma ben curate dalle genti di oggi.
Camminavo lentamente seguendo la meta, inconfondibile, indicata da
un campanile altissimo, svettante nel cielo grigio, verso una piazza ampia,
bellissima.
Pensavo che in passato quella piazza era stata certamente un luogo
di aggregazione pieno di vita anche a quell’ora della mattina dei freddi
inverni, attraversata da gente operosa diretta verso i boschi, i campi, il
torrente.
Nella piazza osservavo una cortina con piccoli e bassi corpi di fabbrica, che
nelle antiche abitazioni della zona ospitavano il “fogolar”, ovvero la stanza del focolare,
il nucleo della vita della famiglia, il luogo sacro del fuoco che ardeva per
scaldare, per cucinare, per riunire persone che vivevano nel disagio, spesso
nella povertà, ma nell’amore reciproco, nell’unione e nella devozione, religiosa
o laica.
Sembrava che i vecchi "fogolars" testimoniassero potentemente la
forza di un valore oggi affievolito o forse perduto, l’unione e la coesione
delle anime, che si contrappone alla dispersione, al distacco ed alla solitudine,
oggi dilaganti di fatto, pur nell’era della globalizzazione e dei
social, in cui ciascuno si connette virtualmente con chi vuole, ma quando rientra
a casa non ha un vero "fogolar" acceso, e prova un freddo diverso, che penetra nel profondo dell’anima.
Mentre mi perdevo in questi pensieri, le mani gelavano sotto i guantoni, ed i piedi facevano sentire la
loro sofferenza al freddo che, dalla pavimentazione stradale ricoperta da un
sottile strato di ghiaccio, saliva verso le ginocchia, attraversando le suole
degli scarponi e gli strati dei calzettoni, incurante della barriera dei pantaloni imbottiti.
Osservavo abitazioni con tanti cartelli “vendesi” e pensavo a
tante storie di emigrazioni all’estero, di persone rientrate ogni tanto o mai
più, di anziani rimasti sul luogo e poi deceduti, di eredità dimenticate o contese da persone sparse in lontane metropoli.
Chissà chi avrebbe acquistato quelle bellissime antiche fabbriche,
alcune delle quali anche ristrutturate ed apparentemente in buone condizioni.
Giovani? Imprenditori? Nuovi abitanti appassionati del luogo? O forse
nostalgici pensionati?
Dopo il lavoro ritornai di nuovo nella piazza, sostando
sotto il campanile, per osservare ancora i "fogolars".
L’orologio del campanile segnava le 13,35 ed il luogo era animato
da voci lontane di bambini, da discorsi sommessi di alcuni anziani sulle
panchine, e di tanto in tanto dall’accensione del motore di auto invasive,
nuovissime e scintillanti, che ripartivano dopo la sosta selvaggia innanzi a spazi
ed edifici antichi, per me sacri, ancora intrisi di storie secolari e di
energie di vite passate ma non del tutto svanite.
Quel giorno il sole non si era neppure affacciato, ed ero troppo stanca
ed intirizzita per vagare ancora in giro ad esplorare i dintorni e per scattare
foto.
Decisi di ritornare a Dardago, e lo ho fatto più volte, nelle
belle giornate invernali, inoltrandomi nella Val di Croda fino alla chiesetta
di San Tomè, risalendo il sentiero della canaletta del Ruial. Ma non ho trovato più tanta neve sulle cime lontane.
Il ricordo del mio primo incontro con Dardago, dell'atmosfera e delle emozioni di quella mattina gelida e nevosa di febbraio di qualche anno prima è rimasto impresso indelebilmente nella
memoria, con tutto il fascino del borgo che si proiettava in passato verso le montagne retrostanti, verso i boschi ed i pascoli da cui traeva gli elementi essenziali per la sussistenza.
Francesca
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(logo di Irene Munzù)
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