EMOZIONI IN CAMMINO IN UNA CITTADINA STORICA DELL’ESTREMO NORD ADRIATICO – Piran/Pirano, Slovenia


EMOZIONI IN CAMMINO IN UNA CITTADINA STORICA DELL’ESTREMO NORD ADRIATICO  – Piran/Pirano, Slovenia

Una mattina di inizio autunno mi sveglio con il desiderio di camminare in terre affacciate sul mare, travolta da quella “inquietudine migratoria” (per citare Paolo Rumiz) che spesso mi assale. A differenza del Rumiz, non ho possibilità di viaggiare lontano, ma posso affacciarmi fuori porta perché vivo in una terra di confine. 
Desidero andare in un posto nuovo.
Desidero rivedere mio figlio dopo mesi estivi trascorsi al lavoro senza vacanze, nella calura urbana. Salgo sul treno regionale che corre verso est nelle brume della pianura friulana, dove sembra che stia finalmente per giungere la pioggia, dopo un’estate interminabile.
Ho una ricorrenza da festeggiare laicamente, l’onomastico che ricorda sia l’etimologia del mio nome che evoca libertà, sia il santo che in tempi antichi predicò l’amore per la Natura, per gli elementi e per tutte le creature, e scelse uno stile di vita essenziale, espressivo di gratitudine e di armonia universale. 
Scendo in stazione a Udine e mio figlio mi raggiunge con la sua piccola auto, anziana ma ancora scattante. Dove andiamo? Piove… Andiamo a cercare il sole, verso est.
Il ragazzo sceglie la destinazione: Pirano/Piran, in Slovenia. Accetto di andare alla ventura, anche se non mi sono documentata sul luogo.



Nell’ultimo anno ho letto libri, visto film e video sulle vicende del confine orientale d’Italia e su quelle tragiche pagine di storia consumatesi nelle terre d’Istria, vissute con sofferenza da genti che convivevano e che poi sono state travolte da vicende belliche e post-belliche circa 70 anni fa; genti andate via esuli e giunte fino alle Villotte di San Quirino, pochi chilometri a nord di Pordenone, e genti rimaste in loco.
Desideravo da tempo conoscere qualche località dell’estremo nord del Mediterraneo, visitare qualcuno dei piccoli centri storici attestati sulla penisola che si protende nel mare Adriatico verso ovest, battuta dalla brezza marittima di maestrale in estate e dalla bora di terra in inverno, calpestare litorali di ciottoli e scogli, tanto diversi da quelli sabbiosi friulano-veneti frontistanti.
Innanzi al primo caotico e frequentatissimo scalo commerciale della Slovenia appare in lontananza il mare, azzurro, calmo, senza vento, dolcissimo nella luce del mattino, oltre immensi depositi di containers.
Per me che vivo nell’entroterra è finalmente “THALASSA”.
Il panorama del Carso mi inquieta, richiama sempre nel mio immaginario memorie belliche e vicende di morte e di sangue, anche se il paesaggio è splendido nella sua unicità.
Scorrono paesini immersi nel verde delle pendici montane brulle e rasate in sommità; emergono nel contesto i tetti rossi e le facciate chiare di casette linde.
La vegetazione cambia progressivamente, da alpina diventa mediterranea, con pini marittimi e macchie di cespugli a me ben noti, con colori e profumi di erbe e di fiori che mi scuotono la memoria e mi riportano per qualche istante nei luoghi lontani del mio passato e delle mie origini mediterranee, non adriatiche ma tirreniche.
All’arrivo a Piran/Pirano, camminando sul lungomare che circonda la città storica, comincio a captare empiricamente, "a pelle", le emozioni che gli spazi ed il costruito emanano.
Non ho avuto il tempo di informarmi sulle vicende storiche della città nei secoli passati, ma riesco a percepire la complessità del tessuto insediativo e lo straordinario accostamento di architetture differenti per tipologia, morfologia, caratteristici stilistici, epoca di realizzazione. 




Facciate intonacate e semplici, alte palazzate con facciate in conci squadrati di pietra scura a vista con piccole semplici finestre o con aperture supportate da mensole in pietra modanata; facciate con impronte veneziane nelle aperture trilobate, la grande porta lapidea con il leone marciano, edifici di impronta austroungarica, e l’altissimo campanile della Chiesa di San Giorgio attestata sulla rocca, appuntito e vagamente riecheggiante il campanile di San Marco a Venezia, eretto verso il cielo, dominante tra il mare e la terra, riconoscibile a chilometri di distanza come una sorta di faro, un indicatore di direzione, di insediamento, di comunità, di porto, di riparo.


La salita sull’altura fino alla chiesa svela spazi interessanti e misteriosi, scalette in pietra incassate tra muretti di contenimento, minuscoli orti ricavati con maestria e parsimonia su stretti terrazzamenti e piccole corti, olivi frondosi fondati saldamente in spazi angusti e protetti dal vento, quasi come bonsai, ma carichi di frutti.


Muri di pietra esposti al sole del sud e ricoperti da siepi pendenti di capperi, con fiori bianchi e piccoli frutti. Farfalle e gabbiani volteggiano in questo contesto misto, marinaro e contadino.


Dall’alto il panorama dei tetti rossi in tegole di laterizio, alcuni dei quali ricoperti da rami di piante rampicanti e persino da zucche, si apre verso il mare azzurro.
Appare evidente che qui sono passate e vissute tante genti diverse, nei secoli, e che accanto all’inconfondibile impronta veneziana ne convivono altre di matrice differente.


La città storica, protesa nel mare ad ovest e circondata come in un abbraccio protettivo ma anche invasivo dal mare, ha il suo avamposto emergente verso e contro le acque: la chiesa della Madonna della Salute. Osservo la facciata e la torre campanaria, unica nel suo stile. Il portone in legno, assai deteriorato, è serrato, ma deduco un impianto antico e forme della fabbrica modificate e rimaneggiate più volte nel tempo.


Accarezzo gli stipiti del portale in pietra, osservo che quello a destra è più consumato dell’altro, evidentemente perché corroso dal vento di traversia che qui soffia dal mare. A lato della chiesetta, un maestoso albero di fico secolare è stato direzionato ed addomesticato da mani di abili agricoltori per ramificare su una pergola speciale, che vedo deserta ma che forse era un punto di aggregazione di persone che si sedevano al sole, con le spalle protette e con lo sguardo rivolto verso la grande baia.


Le stradine della città storica offrono scorci sorprendenti con scalinate ripide e strette, pavimentate in lastre di pietra calpestate da tanti passi e mai sfiorate, forse, da mezzi meccanici.



Gli edifici alti sembrano abbracciarsi e proteggersi a vicenda, come in tanti insediamenti mediterranei in cui il mare ed il vento imperversano. 
Supportici scuri immettono in corti pavimentate in pietra in cui i portoncini delle case sono fiancheggiati da vasi di piante che insistono su un suolo in cui il confine tra il pubblico ed il privato non è materializzato. All’ora del pranzo, aleggia l’odore del pesce fritto, ed il rumore delle stoviglie fuoriesce dalle finestre con le tendine.




Camminiamo per chilometri in tutte le direzioni su strade pedonali e su interminabili scale.
Facciamo il pieno di emozioni nel costruito storico, scattando qualche foto, per poi ritornare in riva al mare. 




Sotto la rupe il panorama si apre verso Trieste e Monfalcone, ed oltre verso Grado. Nella foschia si intravedono le Alpi, che da qui sembrano appartenere ad un mondo lontanissimo, alieno.






Sul versante opposto, nella luce e nel sole dolce del pomeriggio si alza il Maestrale. 
La spiaggetta di ciottoli è accogliente, il rumore bianco del mare tra gli scogli invita al silenzio, al sonno, alla meditazione, all’osservazione della cittadina chiara in lontananza.
Alcune persone fanno il bagno, nuotando lentamente, tra i gabbiani che galleggiano tranquilli. Rimpiango di non aver portato il costume da bagno, anziché l’inutile ombrello.


Dopo questa sosta estatica, decidiamo di rientrare, con rimpianto.
Lasciando indietro questo luogo incantato, immagino quanto sia stato difficile abbandonarlo per sempre, per gli autoctoni che nel dopoguerra sono partiti esuli verso realtà territoriali completamente differenti.
Spero di tornare a Pirano, magari in primavera...

Francesca


 
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