PEDI-BUS. Un mondo vicino/lontano, note in viaggio dalla pianura pordenonese alla remota Val Pentina, Prealpi Carniche, Friuli Venezia Giulia

 


Era un giorno di sole verso la fine della piovosissima primavera 2024, sotto le Alpi del nord-est d'Italia. Avevo un biglietto di viaggio ed un gran desiderio di andare fuori porta in modo alternativo, in solitaria, in cerca di natura, silenzio, cammino, libertà, pace. 
Scarpe, zainetto, cibo leggerissimo, acqua, impermeabile. 
Di mattina presto lo stradone a Pordenone era deserto, mentre salivo sul bus diretto verso le montagne, che si stagliavano sull'orizzonte a nord, incombenti, con quel profilo familiare che una visibilità atmosferica perfetta esaltava nel colore verde intenso della vegetazione, pronta ad esplodere all'approssimarsi del solstizio, dopo i temporali notturni.

Sul fondo del bus c'erano varie persone, l'autista guidava con rara dolcezza, e seduta davanti mi sentivo in piacevole compagnia; osservavo dall'alto il paesaggio, notando tanti particolari che alla quota bassa delle auto non sono ben visibili.
Mi è sempre piaciuto viaggiare da sola, e lo ho fatto sin da quando ero ragazza, osservando i luoghi e le persone con curiosità. Nei mezzi pubblici in realtà non si è mai soli, si incontra e si ascolta la gente, e si fanno scoperte e riflessioni e talvolta dialoghi interessanti. Si entra in contatto con la realtà dei luoghi e dei frequentatori. 
Una grande esperienza, anche fuori porta.
Sulla strada diritta scorrevano i capannoni industriali e commerciali e la realtà urbanizzata lasciava spazio ad un paesaggio antropizzato molto particolare, tra i poderi delle Villotte di San Quirino: tante case rurali tutte simili, intervallate da ampi prati verdissimi, frutteti e vigneti perfetti. Pensavo che, fino a 75-70 anni fa, questo paesaggio faceva parte della steppa dell'alta pianura friulana, delle terre magre, incolte, sassose, improduttive.
Proprio queste terre furono assegnate ad italiani venuti dall'altra sponda dell'Adriatico, durante quella tragica pagina di Storia che fu l'esodo istriano-giuliano-dalmata durante e dopo la seconda guerra mondiale; proprio queste terre furono dissodate, coltivate, rese produttive con sacrificio da famiglie partite senza ritorno dai loro paesi ridenti di mare e di campagne fertilissime di terra rossa. 
Ricordavo racconti e testimonianze lette, persone incontrate, documentari...
Più avanti, la strada attraversava paesini rurali storici, San Martino di Campagna e San Leonardo Valcellina, ciascuno con piazza, chiesa e campanile, con lunghe cortine curvilinee di case dai grandi portali in pietra, con immagini votive scolorite sulle facciate, con capitelli votivi negli incroci con le viuzze laterali. Innanzi ad osterie in vecchio stile, su sedie disomogenee allineate sul marciapiede e rivolte verso la strada, già di prima mattina le persone si incontravano per osservare e sorseggiare, chiacchierando. Vita di paese...
Ancora più a nord, le montagne sempre più vicine, all'imbocco della Valcellina, lì dove il paesaggio selvaggio e misterioso del mondo "oltre" la pianura mostra segnali della sua violenza nell'ampio greto del torrente Cellina, la grava della Cellina, preludio tutto femminile della montagna.  
Su questa grava, oggi costellata di cave di ghiaia, nell'antichità forse esisteva l'abitato di Caelina, che secondo studi di storia locale, fu spazzato via dalle inondazioni. 


Ammirando il panorama maestoso, pensavo che le potenti forze naturali della montagna alpina, pur fragile dal punto di vista idrogeologico, si sono sempre riversate e si riversano ancora, sulle terre di pianura, plasmandole con sedimenti, trasformandole e definendone i margini sabbiosi fino agli estesissimi litorali veneti e friulani.
Osservavo la fermata del bus in un paese di pianura diverso dagli altri, che le genti del Friuli occidentale ben conoscono: Vajont a Ponte Giulio. 
Una valanga di pensieri e di emozioni mi assale ogni volta che lo attraverso. 
Questo centro abitato, progettato da un famoso architetto ed urbanista, realizzato nella seconda metà degli anni '60, che si presenta costituito da spazi ampi, da casette tutte uguali con giardini, dotato di Municipio, qualche negozio, farmacia, osteria, porticati, spazi per lo sport e campi da gioco, strade larghe con parcheggi ed un hotel, mi è sempre apparso estraneo ed estremamente distante dalla dimensione spaziale umana e raccolta che caratterizza i paesi di montagna della Val Vajont, Erto e Casso, da cui vi furono trasferiti gli abitanti. 
Pensavo che la catastrofe del Vajont del 1963, avvenuta sulla diga attestata tra i monti lontanissimi da qui, interposti tra la Valcellina e la valle del Piave, scatenatasi a seguito della frana del costone di una montagna dentro il lago artificiale, con conseguente esondazione di un'onda immensa che risalì sui versanti montani per poi riversarsi per decine di chilometri a valle, spazzando via paesi e provocando la morte di circa 2000 persone (ma non il crollo della diga), è stata seguita da un impattante spostamento territoriale degli abitanti nella pianura, forse con vantaggi lavorativi ed abitativi, ma anche con disagi e con perdita di identità insediativa e comunitaria. 
Osservando le persone più datate sedute sotto il portico e le strade semideserte, provavo ad immaginare l'emozione e la nostalgia dei primi abitanti della nuova Vajont, che per decenni hanno forse continuato a ricordare e rimpiangere i loro paesi di provenienza, invisibili oltre la barriera delle montagne a nord.
Qualche volta, anni fa, a Vajont avevo visto salire sul bus un uomo con stivaloni e canna da pesca, che sbarcava a metà della valle tra Barcis e Claut, sulla riva della Cellina, e si intratteneva per ore a pescare trote.
Sul bus quel giorno viaggiavano giovanissimi alternativi, interessanti nella trasandatezza e nella spensieratezza tipica dell'età; ragazzi con capigliature lunghe e ricciolute, occhialini alla John Lennon, abbigliati con scarponcini non tecnici, braghe larghe, magliette svolazzanti fuori della cintura, polsi coperti da mala arrotolati; ragazze dai visi acqua e sapone, con lunghe chiome, abbigliate con magliettine e jeans, senza fronzoli, riservate; tutti con la bellezza dei loro sguardi e dei loro sorrisi, attrezzati alla buona, con zainetti scolastici, e diretti dove?...
Notando il look, immaginavo che fossero diretti a Cimolais o a Claut, estremi rifugi per una gioventù cittadina che ancora cerca spazi autentici e remoti per esperienze extraurbane all'avventura; ascoltando i loro discorsi, mi accorsi che avevo indovinato. Da mamma chioccia, pensai che in caso di temporale avrebbero certamente preso acqua e freddo, e sperai che non si incamminassero su sentieri pericolosi.


Intanto il bus attraversava il paese di Montereale Valcellina, emergente nel paesaggio con il suo alto campanile, e si inerpicava verso il viadotto di Ravedis e verso il traforo di circa 4 km che sbuca nell'altro mondo "vicino/lontano": la Valcellina, distante pochi chilometri dalla pianura ma lontanissima nello spazio naturale, antropizzato, insediativo, e soprattutto nella dimensione umana dei suoi abitanti; un mondo appartato e variegato, afflitto dallo spopolamento; un mondo che da sempre, nella storia, ha respinto ed attratto le genti per la sua peculiarità. Oggi la valle è meta del turismo escursionistico, prevalentemente estivo e domenicale, motorizzato e non poco inquinante.


Un'altra fermata interessante, nel paese di Andreis, attestato su un'altura abbracciata dalle montagne, isolato, soleggiato, affacciato su panorami da capogiro, a pochi chilometri dalla faglia di scorrimento periadriatica. 
Un paese di grande pregio urbanistico ed architettonico, abitato da una comunità compatta in cui non mancano giovani e famiglie, e belle persone che ho avuto occasione di conoscere, profondamente radicate nel loro luogo di vita, nella custodia e nella valorizzazione delle tradizioni.
Nella piazzetta silenziosa, sulle panchine innanzi all'osteria, al negozio di alimentari ed al Museo della civiltà contadina, stazionano persone abitudinarie, che socializzano nel loro piccolo mondo armonioso. Tornerò ad Andreis prossimamente, per un progetto in sospeso.
Ammirando il lago e la valle, lungo la strada piena di curve, scesi dal bus nel paese di Barcis per proseguire a piedi, prima lungo le rive del lago e poi risalendo la Val Pentina.




Quel giorno il colore del lago di Barcis era davvero speciale, ed il clima, soleggiato e ventilato, invitava al cammino con la piena immersione nel paesaggio. 
Acqua, vegetazione e terra si incontravano armoniosamente, sotto la passerella che attraversa la Cellina, con un gioco di colori e di luci indescrivibile ed irriproducibile fotograficamente nella sua assoluta bellezza.


Dopo un ultimo sguardo al panorama verso il paese di Barcis, mi incamminai lungo la stretta Val Pentina, su una comoda strada che, con andamento sinuoso e con salite e discese, segue il letto del torrente, fiancheggiato da fitti boschi.


Conoscevo bene la Pentina, la avevo percorsa a piedi tante volte, in tutte le stagioni tranne che in inverno, quando è ghiacciata anche in assenza di neve perché i raggi del sole basso per lunghi periodi non riescono a penetrare fino al fondo di questa valle, così stretta e serpeggiante.
Quando sulla strada non passano auto, si riesce ad assimilare il cammino di risalita della valle ad un'attività salutare di ossigenazione e di purificazione interiore, in compagnia dell'acqua che scorre più o meno impetuosa, di luci ed ombre che si avvicendano, di colori che cambiano nel corso di poche ore e che svelano particolari di ghiaie, di sponde, di versanti montani, di alberi, di ruderi di antiche abitazioni abbandonate, nascoste nella boscaglia. Intanto, tornano alla mente le memorie storiche del luogo.


La Pentina è punteggiata da case isolate, alcune attestate sulle rive del torrente, ed altre a quota più elevata e maggiormente esposta al sole anche nei lunghi inverni, ed è inaspettatamente abitata, anche stabilmente, da persone speciali, simpatiche ed accoglienti.
Questa valle, oggi così silenziosa, è intrisa di memorie storiche secolari, di vite e lavoro di famiglie numerose con ragazzi e bambini che la abitavano e la percorrevano sistematicamente a piedi, attraverso un sentiero oggi scomparso, guadando il torrente su precarie passerelle in ogni occasione, persino in corteo nuziale.
Le genti del luogo praticavano l'attività boschiva, la produzione di carbone vegetale, l'allevamento del bestiame per la produzione di latte e formaggio, sfalciavano periodicamente i pianori che oggi vediamo imboschiti, e riuscivano anche a coltivare prodotti agricoli per un minimo di sussistenza alimentare.
Il paesaggio, molto diverso da quello attuale, era ovunque antropizzato e curato, segnato da capitelli votivi apposti innanzi alle case per la benedizione e per l'accompagnamento ed il saluto ai passanti; la valle era piena di vita e di economie scomparse, i cui ricordi sono ancora tramandati oralmente da una generazione all'altra.
Preziosi testimoni, che ho avuto la fortuna di conoscere e di intervistare, mi hanno offerto le loro memorie sulla vita giovanile trascorsa nella valle dagli anni '30 e '40 del secolo scorso, e su persone, consuetudini, tradizioni, toponomastica, edifici, manufatti devozionali,  assetti pregressi documentati da foto d'epoca.
La Pentina è stata un luogo importante della memoria storica per i Barciani durante la seconda guerra mondiale; nel 1944, durante la lotta partigiana, la popolazione civile composta prevalentemente da anziani e bambini, si rifugiò numerosa nelle case della valle, per allontanarsi dal paese in cui quasi tutte le case e le stalle, presidiate dalle donne adulte, furono però incendiate per rappresaglia dai nazisti. 
Camminando, mi tornavano in mente i racconti ascoltati, storie di bambini, di paura, di fame, di solidarietà e persino di apparizioni mariane.
Prossimamente, queste ed altre testimonianze orali inedite, offerte dai Barciani in voce viva, saranno raccolte e pubblicate in un libro, a mia cura.
Immersa nel benessere e nell'emozione di queste memorie, in quel giorno di primavera mi fermai sulla riva del torrente in silenzio, a respirare e meditare, nel punto in cui le acque discendenti dalle montagne apparivano più selvagge e più pure.


La strada invitava al cammino, verso le case più lontane in fondo alla valle, nella remota borgata del Pian dei Tass (dove sorge l'omonimo agriturismo con azienda attiva nella coltivazione delle mele) proprio nel cuore dell'anfiteatro delle montagne altissime, sulle cui cime e nei canaloni si intravedevano ancora alcuni nevai resistenti in quota.




La vegetazione tipica della grava fluviale cominciava a cedere il posto ad abeti svettanti, tra i quali apparivano inquadrate in tutta la loro imponenza le altissime cime, invalicabili.
Il sole era oscurato dalle nubi, forse preludendo ad un temporale, per cui decisi di intraprendere il cammino di ritorno al paese di Barcis, con gli ultimi sguardi verso alcuni punti significativi della valle, tra cui l'allevamento di lumache dell'azienda agricola "La Felicina", e la strepitosa cascata del Molinat.
Quanta acqua pura e gelida sgorgava dalla montagna! Un dono della terra.


Nel viaggio di ritorno, sul bus salì un folto gruppo di giovanissimi escursionisti (no scout) guidati da accompagnatrici; una trentina di splendidi bambini, disciplinati, abbronzati e sudati, tutti in fila con il capo coperto da cappellini, con zaini voluminosi sulle spalle e con i biglietti in mano. Stanchi, si accomodarono ordinatamente e riempirono tutto il bus; alcuni si addormentarono, ed anche io. Chissà da dove provenivano...avevano i sacchi a pelo in cui immaginai che avessero dormito da qualche parte.
Questa gioventù che assapora la natura delle nostre valli, con energia e con rispetto, ci dona tanta speranza per il futuro, in questi tempi bui.
Onore ai bambini, alle educatrici ed ai genitori, pensavo...

Buon viaggio sostenibile e buon cammino a tutti, con i nostri giovani e giovanissimi!

Francesca

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